Incidenti nucleari e salute pubblica
I danni alla salute degli incidenti nucleari sono diretti (cioè dovuti alla radiazione) ed indiretti, soprattutto conseguenti alla evacuazione. A Chernobyl, secondo le informazioni ricevute dal governo della ex Unione Sovietica, dei 600 operatori intervenuti immediatamente dopo l’incidente nucleare, 134 hanno sofferto della sindrome da radiazione acuta (ARS, caratterizzata da nausea vomito, caduta dei capelli, arrossamenti ed ustioni della pelle) che ha portato a morte 28 di essi, entro 3 mesi.
Altri 19 sono morti nei 6 anni successivi ma il rapporto con le radiazioni a cui sono stati sottoposti non è certo. Uno studio effettuato 20 anni dopo l’incidente ha riportato che 1/200 dei giovani under18 che vivevano nelle zone contaminate, hanno sviluppato il cancro della tiroide e suggerisce che questo effetto negativo, si prolunghi anche fino a 40 anni dopo l’incidente. Fortunatamente, il cancro alla tiroide è uno dei più curabili così che, complessivamente, si stima un rischio globale di morte per la popolazione contaminata pari al 1%. Il secondo danno riscontrato a Chernobyl è un maggior rischio di cataratta. A Fukushima, pur con informazioni molto più trasparenti che a Chernobyl, nessuno dei 700 operatori intervenuti immediatamente sul luogo dell’incidente ha riportato ARS. Non è possibile escludere che alcuni di essi possano avere nel futuro un elevato rischio di alcune forme di cancro (leucemia e tumori al seno) ma i dati disponibili non permettono conclusioni certe. In generale, il grado di contaminazione delle zone limitrofe all’incidente nucleare è stato molto modesto e non si sono verificate né si attendono gravi conseguenze per la salute della popolazione, pur se sono stati attivati programmi di screening e monitoraggio per i rischi maggiori, come il cancro della tiroide nei bambini e negli adolescenti. In altre parole, a Fukushima la difesa del personale intervenuto nell’immediatezza del disastro e più in generale della popolazione sembra essere stata eccellente.
Abbiamo notizie meno confortanti sui danni indiretti, causati soprattutto dall’evacuazione. I dati di Chernobyl sono insufficienti. A Fukushima, l’evacuazione con rilocazione di lunga durata di molte decine di migliaia di persone costrette a nuovi stili di vita, in nuovi ambienti, con perdita del network familiare e amicale e sensazione di stigma originato dal falso problema della “persona contaminata” ha creato seri problemi di ordine psicologico. Inoltre, nei primi tre mesi dopo l’incidente, nei fragili (anziani e ospedalizzati) la mortalità (prevalentemente cardiorespiratoria) è triplicata rispetto alla popolazione di controllo. Uno studio ha comparato Fukushima con quanto accaduto nel 1953 nella Contea di Washington in Utah con esposizione alla radiazione 2-3 volte maggiore causata da test di armi nucleari nel vicino Nevada. La popolazione fu invitata a proteggersi restando a casa (lockdown) ma non evacuata. I risultati indicano che in Utah non vi furono effetti negativi sulla salute pubblica, compresi gli aspetti psicologici.
La lezione di Fukushima non deve quindi essere dimenticata: se le centrali nucleari sono presenti in aree popolose sono necessarie precise procedure di intervento e se si opta per evacuazione e rilocazione sarà necessario aggiungere supporti socio-psico-sanitari per ridurre i danni sulla salute.
Autore: Vincenzo Trischitta
Vincenzo Trischitta insegna Endocrinologia all’Università Sapienza di Roma e dirige un gruppo di ricerca sulla genetica e l’epidemiologia del diabete e delle sue complicanze cardiovascolari presso l’Istituto Scientifico Casa Sollievo della Sofferenza tra Roma e San Giovanni Rotondo. E’ tra i fondatori, nel 2019, del Patto Trasversale per la Scienza. Attribuisce agli scienziati il dovere della divulgazione e della informazione per una società più consapevole e più libera.
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